Abbiamo
avuto il piacere e l'onore di incontrare Enzo Donnarumma presso gli
uffici della Rockshots Records a Torino. Di seguito l'intervista che ci
ha rilasciato.
Ciao Enzo, grazie per la tua disponibilità nel concederci questa
intervista. Prima di tutto ti chiedo di presentare il tuo progetto
“Enzo And The Glory Ensemble”. Noi di WhiteMetal.it, considerando le
innumerevoli e prestigiose collaborazioni, l’abbiamo definito nella
recensione di “In the name of the Father” il progetto più ambizioso
della scena christian metal italiana.
Lo
è diventato di fatto ambizioso per il nome e per i nomi all’interno di
sé, ma in realtà è un progetto che è nato da sé stesso. Ancora oggi non
sono in grado di spiegare logicamente come si sia costruito, ne
tantomeno tutto questo cast all’interno, il cui controllo dei
preparativi e di tutte le cose da fare a volte mi sfugge. Ed è nato
appunto da una ricerca interiore da parte mia, dall’esigenza di mettere
ordine sia musicalmente che intellettualmente per le troppe idee e per
il troppo repertorio musicale ascoltato e amato. Da qui è iniziata una
ricerca di suono e di testo, che poi è diventata preghiera.
Sinceramente non potevo creare un prodotto diverso da “In The Name Of
The Father”. Dopodiché sottoposi una critica a Gary (Gary Wehrkamp
degli Shadow Gallery, n.d.r.) , amici da anni e gli chiesi se il
progetto fosse assurdo, ridicolo, oppure se potesse avere un perché. La
sua risposta fu di voler partecipare insieme a Brian (Brian Ashland,
voce degli Shadow Gallery dal 2009, n.d.r.). Il progetto presentava
troppe lacune: loro da una parte e il resto un soliloquio solamente
mio, troppo sbilanciato. Decisi perciò di chiamare chi avevo ascoltato
da ragazzo, trovandomeli poi nel disco ed è nato quindi il progetto.
Come sei entrato in contatto con Gary e Brian degli Shadow Gallery?
L’amicizia
tra me e principalmente Gary, e di seguito con Brian e gli altri,
nacque di pari passo con la morte di Mike Baker (cantante fondatore
della band, n.d.r.), quindi in seguito alle mie condoglianze che lui
apprezzò particolarmente. Da lì iniziò un dialogo e un rapporto fatto
soprattutto di confronti musicali, finché un giorno non mi invitò a
partecipare come ospite durante un live ad Ancona. Mi propose di
cantare la parte che canta James LaBrie (voce dei Dream Theater,
n.d.r.) nell’album “Tyranny” e una cover degli Iron Maiden.
Come nascono i brani dei tuoi dischi? Li componi per intero da solo,
condividendo poi le idee ai musicisti che partecipano al progetto,
oppure c’è un confronto continuo durante la composizione?
All’inizio
erano demo già pronte dove Gary e Bryan erano presenti, ma per gli
altri è stata un’accettazione di un’opera già in corso, pur
condividendo critiche e consigli derivanti dalle loro trentennali
carriere. Per il secondo album è stato diverso, essendo già dentro il
progetto è diventato man mano sempre più collaborativo. Anche se non è
prettamente legato alla tua domanda, voglio dirti che sono felicissimo
anche di un rapporto nato e rafforzatosi anche tra di loro. È bello
vedere come in una conversazione comune, Kobi (Kobi Farhi, fondatore
degli Orphaned Land, n.d.r.) e Gary scherzino e si prendono in giro;
sai ti senti anche tu parte di una storia in corso del prog. È bello!
Quali sono le difficoltà con cui ci scontra lavorando insieme a
musicisti che vivono tutti lontano? In che modo le affronti? Mi
stupisce ancora il fatto che tra “In The Name Of The Father” e “In The
Name Of The Son” siano passati solo due anni, e in entrambi, le
composizioni sono tutte di altissima qualità, nulla è lasciato al caso.
Emotivamente
cade tutto addosso a me, è una croce che prendo, come ognuno prende la
croce delle proprie passioni (risate, n.d.r.). Dal punto di vista più
pratico, in realtà le difficoltà si manifestano di più sul nascere del
discorso di un eventuale progetto live. Loro verbalmente si dicono
disponibili e disposti, anzi, a volte propongono e chiedono, però è
chiaro che nella pratica bisognerebbe unire lontananze tenendo presente
dei tour e riuscire a cogliere date e tempi più stretti per tutti. Per
quanto riguarda il resto, internet da una parte ti toglie gli aspetti
che una vicinanza potrebbe dare, come mettersi a suonare insieme per
far nascere delle idee, però d’altro canto hai più tempo per rivedere i
pezzi e farli maturare. Lavorare via internet, anziché
concentrare tutto in tre giorni, e prolungandoti fino a tempo
indeterminato ti dà comunque modo di curare meglio il brano.
Parliamo ora dello stile musicale. Epico, sinfonico, a volte power e a
volte prog, musiche folk mediorientali, riff granitici e delicate
ballad. Puoi parlarci del tuo background musicale e dei tuoi studi che
ti hanno permesso di spaziare tra così tanti stili?
Provengo
da una realtà di ascolti che mi ha permesso di conoscere molto bene Rod
Stewart, i grandi del soul e del prog rock come i Genesis fin da quando
avevo sette anni, grazie ai dischi e le musicassette che giravano per
casa. Anche se precocemente, tutti questi ascolti mi hanno formato. Poi
ho scoperto la musica classica, il jazz e ti rendi conto a diciotto
anni di aver ascoltato tanto, e non è una male. Però il riconoscersi in
troppe cose può esserlo, si rischia di perdere un’identità. Non posso
riconoscermi contemporaneamente nella musica classica, nel soul, nel
jazz, nei musical, nel popolare, nella new age… e io chi sono? Un no
devi darlo e questa è stata l’operazione di sgrossamento che ha avuto
come conseguenza “In The Name Of The Father” e quindi credo di aver
risposto almeno relativamente alla complessità del suono che ha il
disco in questione. D’altro canto io penso che, dovendo dar conto ai
nostri sentimenti, c’è comunque l’attimo di rabbia, l’attimo di
allegria, l’attimo di ironia, l’attimo di pace e per cui fa bene in
quel momento la chitarra power, in un altro momento magari fa bene
l’arco, poi l’ottone delicato e quindi la musica è uno strumento
descrittivo delle tue emozioni.
Il tuo stile vocale, dal punto di vista timbrico, associato a sonorità
epiche richiama quello di Eric Clayton dei Saviour Machine. Sono una
delle band a cui ti ispiri e che apprezzi?
Ti
ringrazio dell’accostamento e tra l’altro mi aiuta di più a credere nel
mio timbro perché in realtà non nasco come tecnico in qualcosa, ma
nasco come autore, pur avendo studiato. Ma questo rende più difficile
riassumere il tuo lato tecnico al tuo lato concettuale, in quanto
possono non starci bene l’uno con l’altro. In realtà siamo entrambi
baritoni, per cui rispetto a un tenore ad esempio, non puoi far
delle cose perché puoi farne altre e già questo può farci assomigliare
in alcune scelte o modi di ovviare davanti al rock. Ti confesso di aver
approfittato di una somiglianza vocale con lo stile di Clayton per
analizzare alcune sue soluzioni, bellissime e geniali, ma quello che mi
ha aiutato di più vocalmente al di là del discorso prettamente metal, è
stato ascoltare Barry White, Frank Sinatra, Bing Crosby e i grandi dei
musical americano di Broadway e da lì ne derivi un patrimonio
descrittivo e recitativo non indifferente che può aiutarti anche quando
la voce non c’è (risate, n.d.r).
Ora una domanda, la cui risposta temo sia parecchio articolata. Dal
punto dei contenuti delle lyrics, c’è il concept che lega “In The
Name Of The Father” e “In The Name Of The Son”?
Come
hai potuto ben vedere, il progetto Enzo And The Glory Ensemble è una
realtà che è nata sfuggendo dalle mie stesse mani, quindi non ne ho
avuto il controllo e tuttora non ce l’ho. Di conseguenza anche per
questo discorso di un’ipotetica trilogia in atto, non potrei
risponderti con un’assoluta consapevolezza. Certamente ti poni il
problema, però sai, sono scelte che a volte fai anche un po’
inconsciamente, quindi sono tentato nel risponderti che un po’ è una
trilogia in atto e che un po’ non lo è. Lo è nella misura in cui c’è un
argomento sviscerato sempre di più e c’è comunque un percorso
che, partendo da preghiere, quindi da una figura anche embrionale di
fede, diventa man mano con i piedi per terra, quindi il Figlio. Questo
è stato il vero motivo di “In The Name Of The Son”, ovvero che si
continua, ma si continua camminando in una dimensione più sociale.
Sicuramente il terzo album vorrà continuare in questa direzione
aprendosi sempre di più al discorso del sociale, al discorso
comunicativo e al discorso del tangibile.
Parallelamente continui a curare l’attività teatrale o la musica ti sta assorbendo completamente?
La
musica mi assorbe completamente, ma l’unico ruolo teatrale che ho
ancora in serbo, che è quello che mi ha avvicinato al recitare, è il
ruolo di Cristo che puntualmente interpreto nel mio paese ogni
settimana santa. È una tradizione popolare ormai, che le strade vengono
chiuse e si crea questo corteo che poi si esplica in un dramma. È dal
’97 ed è quindi l’unico spunto teatrale che mi sono conservato,
principalmente per il tempo. Farei di tutto, anche sport, ma il tempo è
quello che è.
Da musicista metal e credente cristiano, quali sono gli ostacoli e i
pregiudizi che hai incontrato nel tuo percorso musicale? La domanda è
sia per quanto riguarda l’accoglienza del pubblico sia per quanto
riguarda la ricerca di un’etichetta come la Rockshots (che già ha sotto
contratto una band cristiana come i Metatrone).
È
una bella domani e si potrebbe dire tanto sulle incomprensioni
dell’essere umano di oggi e di sempre. TI confiderei che il diavolo non
è l’eretico, oppure chi ha un’altra fede. Il diavolo per me è
separazione, il fanatismo dietro un’idea, il trasformarla da idea
bellissima a idea orribile, in una fede orribile avente come perno
qualcuno che anziché darti amore ti dà minacce. Proporre un liberatore
come un ragione di condanna è una cosa che noi uomini purtroppo
sappiamo fare molto bene. C’è diavolo in quella parte bigotta della
chiesa e c’è diavolo anche in chi si ribella a quella chiesa e ti
tortura via web, torturare anche figurativamente chi ha
quell’orientamento di fede è un po’ fare la stessa cosa, un perpetuare
un atteggiamento intollerante e bigotto. Quindi sì, il metal comprende
questo errore sociologico e ricorrente ovunque e la difficoltà è
convincere le persone a sapere aprire una confezione artistica,
guardarla così com’è, per apprezzarne la tecnica e l’estetica. È questa
l’arte, non c’è per forza bisogno di dover fare una guerra di idee. In
questo le difficoltà ci sono, ci sono sempre state e sono tuttora in
atto e lo puoi vedere anche in quella critica che inizia con un’analisi
tecnica e poi va a finire su concetti religiosi e ti rendi conto che la
recensione non è proprio una recensione politically correct.
All’estero la situazione è migliore?
All’estero
va decisamente meglio, forse perché non c’è un Vaticano e di
conseguenza non c’è un contro-Vaticano così forte come qua (risate,
n.d.r.). Poi il Christian metal è anche nato all’estero e sono più
abituati ad ammettere “unioni strane”. In Italia ci sono gruppi come
gli S91, Metatrone, Ascer e tanti altri gruppi che meritano tempo,
ascolto e purtroppo non avviene così. Si crea un circuito quasi
settario, meraviglioso, ma che resta in ombra.
Vuoi aggiungere ancora qualcosa che non è emerso da queste domande?
Vorrei
aggiungere che la vera ambizione del progetto “Enzo And The Glory
Ensemble” non è quella di sfoderare Marty Friedman per un terzo e
quarto album, tanto l’emozione di un vanto dura poco, ma è quella di
condividere un messaggio che può migliorare la qualità di vita della
gente, un messaggio di apertura verso il diverso. Può sembrare banale,
ma il concetto di servirsi utili per qualcuno, di sentirsi risposta e
non domanda è quello che cambia la nostra vita. Questo si trasforma in
amore, in ascolto, nel togliere i paraocchi e guardare la vita così
com’è, libera, semplice e bella ed è l’augurio che faccio a chiunque
leggerà questa intervista.
Ringraziando ancora sia te che Roberto della Rockshots per la disponibilità, ti chiedo di lasciare un saluto ai nostri lettori.
Saluto
i lettori e li invito a dare un’occhiata in più in giro verso le realtà
poco conosciute e poco prodotte perché spesso si incontra materiale
stupendo. Restiamo collegati sempre nell’area metal che troviamo sempre
cose belle!
Daniele Fuligno
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